Recensione - "Donne che corrono coi lupi", C. P. Estés
Donne che corrono coi
lupi di Clarissa Pinkola
Estés (Pickwick, 2016), non è solo un libro, che peraltro è stato oggetto di
studio in più occasioni, bensì un manuale per la vita. Impiantatosi nella
classifica dei bestsellers del New York Times per ben tre anni, la
psicanalista junghiana esordisce con un romanzo in cui attua una sorta di
autopsia della psiche femminina, volta al recupero di una “specie a rischio”, la Donna Selvaggia. Facendosi strada nella
storia e tra le storie recupera dal sottosuolo psichico la voce de La Que Sabe, Colei che sa, la vecchia
donna selvaggia: “Da qualunque cultura
sia influenzata la donna comprende intuitivamente le parole donna e selvaggia”.
Lei è il Rio Abajo Rio, il fiume che scorre sotto il fiume.
La
Estés apre una porta, scorge un passaggio e lo fa scegliendo un canale di
comunicazione piuttosto ortodosso: va alla ricerca dell’archetipo, il numen delle storie dal potere
medicamentoso che lei ascolta durante la sua infanzia e giovinezza per bocca
delle naginenik, le sue zie, oltre
che dai narratori-guaritori della sua famiglia.
“Se una storia è un seme, noi siamo il suo
terreno. Ascoltando la storia, riusciamo a esperirla come se noi stesse fossimo
l’eroina che alla fine vince o cade […] in maniera assai reale, resta in noi un
imprinting per il fatto stesso di aver ascoltato una storia”.
Donne che corrono
coi lupi è una sfida tra l’istinto che tutto sente e l’ego che tutto sa. Un
libro che merita il giusto tempo e le dovute pause.
La
Loba, Barbablù, Manawee, La Donna Scheletro
Vita/ morte/ Vita, Il brutto
anatroccolo, Scarpette rosse - giusto per citare
alcune delle favole che qui si narrano -, tracciano un percorso ben preciso:
alla donna moderna che è oggi un “garbuglio
di attività”, le vien data la possibilità di recuperare la sua integrità,
la donna primigenia che un tempo era e che può tornare ad essere, perché “il segno della natura selvaggia è che va
avanti, persevera”.
A Roma, in
Campidoglio, fu rilevata un’iscrizione risalente al III sec. d. C.: “itus et reditus”. Fu l’augurio fatto
alla Dea Caelestis per un felice
viaggio di andata e ritorno ed è esattamente questo l’augurio che rivolgo ad
ogni lettore-navigante che deciderà di imbarcarsi sulla Wild Woman, pronta a salpare per un viaggio di 572 pagine.
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