J. D. Salinger, quel patologico mutismo dell’eremita del New Hampshire
Il
27 gennaio 2010 si congeda per sempre Jerome David Salinger, autore iconico
della letteratura americana, che proprio quest’anno ha compiuto un secolo dalla
sua nascita. Scrisse molti racconti, ma a consacrarlo fu il romanzo “The Catcher in the Rye” – “Il giovane Holden”. E con Holden,
Salinger crea un altro da sé perché la relazione che intercorse tra lo
scrittore e il protagonista fu tanto simbiotica quanto antitetica, come la
contesa tra l’ostinato mutismo dello scrittore e la voce perdurante di Holden
Caulfield.
La
maggior ambizione dello scrittore non fu tanto quella di pubblicare sul New Yorker, rivista letteraria con la
quale avrà sempre un rapporto minato dall’incomprensione, quanto quella di
continuare a scrivere ossessivamente senza pubblicare più nulla per decenni,
spegnendosi in silenzio, senza clamori. Non amava il mondo, ma lo osservava con
grande attenzione. Lo scrittore Jack Wenke lo descriverà come un uomo che
“restava sulla scena tenendosene fuori”, “by
being out of the picture, he is in the picture”. Quella di non pubblicare
fu senza dubbio la sua scelta più bizzarra e anche quella più autentica:
scrivere, per Salinger, era una necessità, significava dare nutrimento a un intimo
bisogno di quiete strappatagli dalla guerra, che rivendicò sempre attraverso la
sua stessa scrittura. J. D. Salinger ha creato e vissuto i suoi personaggi come
se fossero creature viventi, tanto che all’uscita di Franny e Zooey; Alzate
l’architrave, carpentieri; Seymour.
Introduzione, il critico John Updike ironizzò descrivendolo come “un uomo
che ama i suoi personaggi più di quanto li ami Dio”.
Salinger
proveniva da un’agiata famiglia ebrea e aveva frequentato scuole che misero in
risalto, tuttavia, quel gap sociale che lo indurrà poi ad una serie di
espulsioni. Quel senso di estraneità lo rese inquieto proprio come lo sarà
Holden Caulfield di The Catcher in the
Rye e come il protagonista del suo romanzo sarà incompreso dal padre, che
non appoggerà la sua scelta di dedicarsi completamente alla scrittura. The Catcher in the Rye fu pubblicato per
la prima volta nel 1951. Della sua traduzione, disponibile soltanto nel 1961,
se ne occupò Adriana Motti per Einaudi Editore, titolando l’opera Il giovane Holden. La storia riguarda
l’adolescente Holden che abbandona l’istituto Pencey e fugge per tre giorni a
New York, prima di tornare a casa e confessare alla sua famiglia l’ennesima
espulsione. La trama è esile, ma la sua voce è roboante e identificativa, oggi
come allora.
Tra
Salinger e Holden avviene una sorta di metempsicosi letteraria: ben dieci anni
della vita dello scrittore confluiscono in Holden, gli anni corrispondenti alla
stesura del romanzo. Salinger scrive di Holden quando parte per la Seconda
guerra mondiale, portando con sé già ben sei capitoli di The Catcher in the Rye. Scriverà ancora, senza mai fermarsi,
durante la battaglia delle Ardenne, quando fu assegnato al controspionaggio e
quando entrò per la prima volta in un campo di concentramento nazista.
“La
seconda guerra mondiale ha fatto di Salinger, Salinger” (Shane Salerno e David
Shields, Salinger. La guerra privata di uno scrittore, a cura di Lorenzo
Bertolucci e Paolo Caredda, Milano), perché quei 299 giorni di combattimento
ebbero una tale incidenza sulla sua scrittura che nel leggere i suoi racconti i
confini sfumano e diventa quasi impossibile distinguere il Salinger che
combatte sul fronte e il veterano che torna a casa, rintanato nel suo rifugio a
Cornish, nel New Hampshire. Lo scrittore stesso confesserà che “una persona, per
quanto viva a lungo, non può più togliersi dalle narici quell’odore di carne
bruciata”. Dinanzi ai suoi occhi l’umanità era stata profanata, l’innocenza
vessata e deturpata e fu forse questo che spinse Holden a sognare di essere “l’acchiappatore nella segale” che salva
i bambini dal dirupo, immagine metaforica volta a rappresentare lo stadio
dell’età adulta.
Eppure
vi era un altro aspetto del romanzo che preoccupava Salinger: “era inquieto
riguardo al linguaggio di Holden, si preoccupava di come lo avrebbe preso la
gente e soprattutto quelli che gli piacevano”, rivelerà Jean Miller, una cara
amica dello scrittore, alla quale confessò quanto fosse importante per lui
scrivere un buon libro e non un bestseller qualsiasi. Il giovane Holden non solo valicò i confini statunitensi portando
la letteratura americana a un punto di snodo, ma negli anni ’60 divenne un vero
e proprio fenomeno culturale. E a questa popolarità J. D. Salinger non era
preparato. La sua opera è stata un vero e proprio scacco matto nella storia
della letteratura di quegli anni perché da un lato fu la fine di una
generazione, quella di Hemingway, dall’altro ispirazione per la nascita di un
nuovo movimento letterario, la Beat
Generation.
Holden
è un adolescente che impadronendosi di vizi appartenenti solo all’età adulta
mostra la decadenza sociale, le pareti sudicie dell’ipocrisia, la
demistificazione dei valori, quella cosa “schifa”
del perbenismo borghese. Ogni sua azione, ogni suo pensiero è sostenuto da una
sensibilità che lo guida a porsi domande impercettibili ai più, senza mai
trovare una traccia di sé in ciò che lo circonda. Quasi gli sembra di svanire.
Holden
sdegna il presente al pari del suo creatore che descriverà “l’America come un
centro commerciale che ha perso la testa e smarrito la sua anima” - “È
possibile crescere senza svendersi?”. È questa l’America post-bellica per
Salinger e i ricordi di Holden, la maggior parte di essi almeno, sono legati
alla notte che in qualche modo riflette il buio di chi pone domande che restano
irrisolte. E dunque dove vanno a finire le anatre di Central Park quando
comincia l’inverno e il lago si ghiaccia? Nessuno lo sa, neanche Holden, forse
nemmeno Salinger, che non ha la pretesa di rispondere alla domanda “Cos’è la
letteratura?”, ma fa molto di più: racconta una storia, una storia vera perché
è l’unico modo di scrivere che conosce, quando “c’è fuoco tra le parole”, anche
se mancano le risposte, risolute e risolutive. Il lettore percepisce quel
sentimento, si sente ascoltato, compreso, persino guarito dal saggio Holden-Salinger.
È la risposta mancata che fa sognare a Holden di acchiappare i bambini che
stanno per saltare nel dirupo.
Questa
involontarietà di farsi adulto blocca Holden perché è Salinger a essere
bloccato: è un padre assente verso i suoi figli e lo è come uomo verso sua
moglie, è attratto da donne sempre molto più giovani di lui, è incapace di
comprendere il modo in cui Holden sia riuscito ad agganciarsi così intensamente
ai sentimenti dei lettori, che a un certo punto insudiciano l’innocenza del
protagonista stesso. Mark David Chapman, Robert Bardo, John Warnock Hinckley
Jr. sono i nomi degli assassini che ispirandosi a Holden, ne imbrattano la
purezza fino all’aberrazione. John Lennon, Ronald Reagan, Rebecca Schaeffer
(ventidue anni), sono le vittime e le ombre con cui Holden verrà sempre
ricordato.
Fino
a che punto uno scrittore può essere responsabile dei suoi personaggi e fino a
che punto poteva esserlo Salinger che li amava più dei suoi stessi figli?
Esiste un limite fra il creatore e la sua creazione, ma forse la risposta è in
quel salto tra il 25° e il 26° capitolo, in quel vuoto dove il ricordo
s’interrompe e il lettore viene catapultato in una clinica psichiatrica, senza
altre spiegazioni. Questo scompenso si crea per ciò che Holden non dice, che
Salinger non dice. O non vuole dire. E se va imputato qualcosa a J. D. Salinger
è il suo silenzio.
E
così si barrica dentro le pareti sicure delle sue ossessioni a Cornish, in
quell’ostinato mutismo da sempre rivendicato dalla voce del suo alter ego. L’unicum linguistico salingeriano ha
contraddistinto e contraddistinguerà sempre Holden da qualunque personaggio
esistito o esistente. E sebbene quel linguaggio, sconcio e ricco di turpiloqui,
disturbò profondamente la critica americana che non era preparata a guardare il
proprio Paese da una simile prospettiva, in realtà è oggi più attuale che mai.
L’aggiornamento di traduzione di Matteo Colombo del 2014 lo dimostra.
I
lettori de Il giovane Holden si
sentono compresi più di quanto lo sia mai stato lo scrittore stesso. La
comprensione è la forma più alta di empatia, l’unico mezzo per fare di un libro
un corpo vivente e Salinger aveva “compreso cose della cultura americana prima
ancora che lui ne fosse consapevole”.
La
guerra, l’amore, la scrittura sono le fasi principali della vita dello
scrittore i cui confini non possono essere tracciati. Non ci resta che
accettare le domande sospese, le risposte mancate, le parole irriverenti,
l’incosciente silenzio perchè Holden imbocca solo le domande poste dal suo
creatore, senza fornire alcuna risposta, consegnata al lettore a briglie
sciolte. Avrebbe avuto un destino diverso il giovane Holden se avesse
rappresentato la risposta oltre che la domanda?
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