Recensione - "Autostop con Buddha", W. Ferguson


Autostop con Buddha (edito da Feltrinelli in “Universale economica”, 2018), è il romanzo con cui esordisce il canadese Will Ferguson nel genere della narrativa da viaggio. Con la sua “corporatura da orso e lo zaino ingombrante” fa un break dal suo lavoro di docente inglese in Giappone, dove ci resta per cinque anni. Con un po’ d’incoscienza e col suo scarso senso dell’orientamento decide di inseguire la rosea scia del Sakura Senzen, il “Fronte dei fiori di ciliegio” che esplode nella terra nipponica all’inizio della primavera. 




Ferguson si sposta in autostop da una punta all’altra del Giappone, da Sud a Nord, da Capo Sata a Capo Soya, attraversando le quattro grandi isole del continente: Kyushu, Shikoku, Honshu spingendosi sino a Hokkaido, “dove finisce il Giappone”.
Diversamente da altri viaggiatori solitari che lo hanno preceduto - il compositore di haiku per eccellenza Matsuo Basho, Lesly Downer, Alan Booth -, Ferguson decide di procedere in solitaria sì, ma con l’obbiettivo di non “viaggiare tra i giapponesi, ma insieme a loro”.




I giapponesi non si fermano a caricare gli autostoppisti”, gli dicono. Una sorta di credenza popolare che s’intona come una nenia ad ogni passaggio “scroccato” e che per l’appunto si smentisce.

Autostop con Buddha è una storia che schiude altre storie, quelle che s’incrociano col pollice dello scrittore e che avranno sempre un nome, un cognome e una contraddizione.  Ciò che ne vien fuori è un vero e proprio collage fatto di fotografie diverse che daranno una panoramica sorprendentemente coerente di ciò che il Giappone è, ma soprattutto di ciò che il Giappone è per Will.

Dai suoi confini Will ne resterà sempre fuori: è il destino del gaijin che non vuol dire semplicemente “straniero”, bensì vela – ma poi neanche troppo – una sorta di esclusione non dichiarata verso il forestiero da parte dei giapponesi. È una percezione che in Will assume le vesti di una sofferta consapevolezza perché Ferguson ama il Giappone e questo romanzo fornisce, in qualche modo, l’occasione di comprendere meglio quel senso di disorientamento che invece prova quando è in Canada, nel suo Paese d’origine e che racconta in “Why I hate Canadians”.

Questa terra si racconta attraverso i ricordi ancora vividi dei veterani che Will incontra, il dolore stretto in una morsa nel ricordare gli eventi traumatici di Hiroshima e Nagasaki, le leggende, i templi, i riti e un’appartenenza eccessivamente nazionalista, “è la nazione numero uno al mondo. Le aziende giapponesi sono fortissime. I prodotti giapponesi sono i migliori al mondo”, seppur a parlarne resta “una nazione piccola e povera”, con consenso generale ovviamente.


La sua penna ha due enormi potenzialità: il cuore e l’ironia, a tratti pungente di sarcasmo, ma che lui utilizza in maniera sapienziale.

Commenti

Post più popolari

Translate